Sempre più senza bisturi e con l’ipnosi per anestesia

Sebastiano Marra (primario alle Molinette): alle Giornate di Cardiologia di Torino le novità sui bio-stent a scomparsa, le valvole sperimentali aortiche di Rihal della Mayo Clinic e l’inserimento delle clip mitraliche attraverso l’inguine.

LUIGI GRASSIA

TORINO

8896522-kHVE-U1040170967399zfH-640x320@LaStampa.it«Le nuove frontiere della cardiologia sono due: terapie sempre meno invasive e col minor ricorso possibile al bisturi, e attenzione alla qualità della vita del paziente, in modo che dopo essersi salvato da un attacco di cuore non debba passare il resto dei sui giorni su una carrozzella». Così il dottor Sebastiano Marra, primario di Cardiologia all’ospedale Molinette, riassume quello di cui si è parlato nella ventiseiesima edizione delle Giornate Cardiologiche Torinesi, un appuntamento internazionale con 115 luminari europei, americani e di altre parti del mondo. Le Giornate si sono concluse sabato e Marra le ha co-presiedute con il professor Fiorenzo Gaita, direttore della cattedra di Cardiologia all’università di Torino.

Dottor Marra, che novità vi siete scambiati in quest’incontro? Sono emerse idee nuove?

«Certo, c’è un’evoluzione continua. Charanjit Rihal, un cardiologo indiano della Mayo Clinic di Rochester (nel Minnesota) con cui abbiamo una cooperazione costante, ci ha fatto conoscere nuove valvole sperimentali a livello aortico e mitrale. A Torino stiamo sviluppando con successo gli stent biosolvibili. Per chi non lo avesse presente, gli stent sono piccoli tubi che vengono inseriti nei vasi sanguigni per tenerli aperti. Io ho inserito il mio primo stent nel 1991. Per anni abbiamo usato gli stent metallici, che salvano la vita dei malati ma ingabbiano anche le arterie. E i punti lasciano delle cicatrici. Ora invece come stent si usano maglie di materiale organico (un tipo di acido lattico) che fa il suo lavoro e poi in un paio d’anni svanisce».

Lei ha anche accennato al fatto che il bisturi si usa sempre di meno.

«Faccio un esempio. In America, e anche da noi, è in discesa la tendenza all’angioplastica, cioè l’intervento percutaneo non chirurgico per sostenere le pareti malate delle arterie. Se ne fanno ancora, ma solo quando sono proprio indispensabili. In una percentuale crescente di casi le si evita, perché siamo diventati sempre più esperti nel capire la malattia e lo stato reale dei pazienti, e nel maneggiare i materiali. Ci sono lesioni che all’aspetto hanno una gravità che noi classifichiamo fra intermedia e severa e che in passato avrebbero portato direttamente all’angioplastica. Ma adesso con dei test più accurati siamo in grado di capire che molte di queste lesioni non sono gravi come sembrano a vista e quindi non giustificano l’intervento. D’altra parte succede anche il contrario, cioè in qualche caso con le analisi approfondite ci si accorge che la situazione è peggiore del previsto e allora si manda il paziente dal chirurgo, ma questo è meno consueto».

Si può dire che la diagnosi e la cura sono sempre più personalizzate?

«Sì, sono diventate più raffinate e più mirate al singolo paziente».

Altri esempi di chirurgia che si fa un po’ meno necessaria di una volta?

«Alle Molinette abbiamo avuto successo con il trattamento dell’insufficienza mitralica severa senza ricorrere al bisturi. Abbiamo trattato in questo modo più di trenta pazienti con risultati positivi per tutti. L’insufficienza mitralica si cura inserendo una piccola clip e questo si faceva con un’operazione chirurgica. Adesso lo si può fare senza bisturi, inserendo dall’inguine un catetere che risale fino al cuore e colloca la clip al posto giusto sotto la guida di un apparecchio ecografico. Comunque la procedura è complessa, bisogna coordinare una squadra molto preparata».

Anche la diagnosi fa passi avanti?

«Al di là dell’holter che si fa in ospedale e che tiene il paziente sotto controllo per poco tempo è efficace il sistema Reveal che consiste in un stisciolina lunga 3 o 4 centimetri e larga uno, che si inserisce sotto la pelle. In realtà quella strisciolina è un computer che tiene sotto controllo l’attività del cuore per un paio d’anni e può essere “interrogato” dall’esterno dai medici».

È vero che siete all’avanguardia anche nell’uso dell’ipnosi addirittura in sala operatoria, per sostituire o affiancare la normale anestesia?

«A Torino abbiamo creato, in collaborazione con la divisione di Terapia Antalgica di Anna De Luca, un progetto per la gestione del dolore e dell’ansia attraverso l’ipnosi. Con questa tecnica si riduce del 90% l’uso dei farmaci e il paziente si riprende prima, essendo immediatamente vigile al termine della procedura. È possibile fare completamente a meno degli analgesici locali solo con il 20% della popolazione, mentre per gli altri si può ridurre la dose. Comunque è un ottimo risultato».

  27/10/2014